CENNI STORICI
L’allevamento dei maschi non ha mai trovato uno sbocco economico
interessante. Le cause dello scarso interesse per questa attività
sono molteplici e da addebitarsi in parte agli stessi allevatori e in
parte alla miope mentalità dei commercianti che non hanno intravisto
nel bufalo un prodotto qualificante del loro banco di vendita, ma un
mezzo per frodare il consumatore al quale è stato sempre “rifilata”,
tranne qualche sporadica iniziativa, carne di bufalo per carne bovina.
Nel passato, quando la carne derivava da vitelli bufalini in ottimo
stato di nutrizione essa veniva venduta come carne bovina, in caso contrario
veniva commercializzata come carne di bufalo. Nel consumatore si è
ingenerato così un falso concetto, tramandato fino ai giorni
nostri.
La mancata qualificazione della carne, contrariamente ai vantaggi derivanti
dalla valorizzazione del latte di bufala, ha ormai dissuaso gli imprenditori
ad allevare i maschi il cui prezzo di mercato è al di sotto dell’effettivo
costo di produzione.
Nel passato una parte dei vitelli veniva allevata in quanto costituiva,
comunque, un’entrata per l’azienda che disponeva di vasti
latifondi. L’allevamento di tipo estensivo contribuiva ad esitare
sul mercato soggetti di 4 q.li di qualità scadente, che risentivano
della disponibilità stagionale dei foraggi e raggiungevano il
peso di macellazione a circa 3 anni.
La resa al macello era inferiore al 50% e la carne risultava particolarmente
dura e caratterizzata dall’odore di muschio derivante dall’abitudine
degli animali a trovare refrigerio nei così detti tonzi o caramoni,
sorta di pozzanghere che essi stessi scavavano nel terreno. In definitiva
l’allevatore prestava poca cura all’allevamento dei maschi
che, allevati con modiche quantità di latte materno (secondo
l’usanza succhiavano da tre capezzoli nel primo mese, poi da due
e da uno nel secondo e terzo mese), allo svezzamento raggiungevano il
peso di circa 60-70 kg; successivamente ricevevano fieno scadente e
venivano lasciati al pascolo dopo i 6 mesi.
Le infestioni di parassiti gastro-intestinali e il barbone (pasteurella
bubaliseptica) operavano una selezione naturale e rallentavano la crescita
dei soggetti esorbitanti la rimonta e destinati al macello.
Il tutto contribuiva a diminuire il valore commerciale dei bufali giustificando
in parte la scarsa valutazione di mercato imposta dai macelli. La reciproca
convenienza da parte degli allevatori di esitare sul mercato soggetti
allevati senza impegno di capitale, con pascoli marginali o con residui
della foraggiata delle bufale, e da parte dei commercianti di acquistare,
ad un prezzo di poco inferiore a quello reale, bufali da vendere in
macelleria per bovini, alla lunga non ha giovato all’immagine
della carne bufalina che, anche in caso di richiesta, risultava scarsamente
reperibile da parte del consumatore.
Con le mutate tecniche di gestione aziendale, abbandonato il pascolo
e la messa a coltura dei terreni, l’allevamento di maschi per
il macello non risultava conveniente in quanto il prodotto aziendale
(insilato e fieno) da destinare ai maschi forniva un reddito decisamente
superiore se veniva utilizzato per le bufale da latte.
La mancanza di un mercato della carne di bufala giocava a sfavore di
quegli allevatori, veramente pochi, che producevano un vitellone con
caratteristiche ottimali.
In altri termini, come spesso accade, il prezzo di un vitellone che
forniva una carne sapida, tenera e gustosa veniva svilito dalla presenza
sul mercato di soggetti con caratteristiche pessime. Tutto ciò
scoraggiava imprenditori di valore a proseguire nella loro iniziativa.
Attualmente il settore carne mostra buone potenzialità produttive;
sono nati dei Consorzi per la valorizzazione del prodotto e dei suoi
numerosi pregi.